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Artista di strada arrestata a San Pietroburgo
Federico Berti
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17 ore fa
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Salve a tutti! Oggi ci immergiamo in una vicenda davvero complessa, che ha fatto il giro del mondo.
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Il caso dell'artista di strada russa Diana Loghinova. E lo faremo attraverso la lente
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di un articolo molto interessante di Federico Berti, intitolato Libertà di pensiero e PSYOP.
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Allora, ecco il nostro percorso. Partiremo dalla notizia così come l'abbiamo sentita tutti,
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per poi scavare un po' più a fondo. Vedremo gli aspetti legali, il ruolo dei media,
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il contesto musicale e infine arriveremo alle conclusioni, piuttosto forti, dell'analisi di
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Berti. Ok, cominciamo dalla storia che è arrivata alla maggior parte di noi. Quella della giovane
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musicista perseguitata solo per aver espresso le sue idee. La narrazione che ha preso piede,
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soprattutto sui media italiani e ucraini, è stata questa. Una ragazza di 18 anni, insieme al suo
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gruppo, finisce in manecche per aver cantato canzioni contro la guerra. Una storia semplice,
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d'impatto. Ma come ci fa notare Federico Berti nella sua analisi, forse un po' troppo semplice.
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Ed è proprio con questa frase, presa dall'articolo di Berti, che iniziamo a capire che c'è un altro
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livello di lettura. Quello, o così almeno secondo, è un campanello d'allarme, un invito a guardare
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oltre i titoli dei giornali per analizzare meglio i fatti. E allora spostiamoci. Lasciamo un attimo da
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parte la narrazione mediatica e andiamo a vedere i dettagli legali, i fatti nudi e crudi, così come
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vengono riportati nella nostra fonte. Ecco, questa sequenza di eventi è cruciale. L'articolo di Berti
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mette in luce un punto fondamentale. I problemi con la legge non iniziano subito, scattano solo
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dopo che un video delle loro esibizioni diventa virale, spinto da un'agenzia di stampa. E infatti,
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la prima multa non è per il contenuto delle canzoni, ma per disturbo della quete pubblica.
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È solo dopo, con le esibizioni ripetute e una denuncia specifica, che la situazione
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degenera. E qui il contrasto è, beh, è lampante. Da una parte abbiamo la narrazione semplice,
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arrestata per canzoni contro la guerra. Dall'altra le accuse ufficiali, quelle messe nero su bianco,
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disturbo della quete, recidiva e vilipendio delle forze armate. Il punto, sottolinea l'analisi,
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non è negare che ci sia stata una repressione, ma capire esattamente come si è attivata.
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E così arriviamo dritti al cuore del ragionamento di Federico Berti. L'idea,
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cioè, è che non sia stata la performance in sé a scatenare tutto, ma la sua amplificazione
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mediatica, forse neanche tanto spontanea. Più di mezzo milione di visualizzazioni,
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in una manciata di giorni. Ora, chiunque bazzichi un po' il web sa che numeri del genere
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raramente sono frutto del caso. L'articolo suggerisce che l'algoritmo sia stato, diciamo,
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aiutato. E così, una semplice esibizione di strada si trasforma in un caso mediatico nazionale.
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Ecco il punto chiave. Secondo Berti, gli artisti sono stati quasi incentivati a continuare. Le
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multe per disturbo della quiete pubblica erano probabilmente molto più basse dei guadagni
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che si potevano fare con la monetizzazione di quelle visualizzazioni. In questo modo,
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sono diventati, forse senza nemmeno rendersene conto, un ingranaggio in un meccanismo molto
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più grande di loro. L'autore dà anche un nome a questa dinamica, un nome che viene dal gergo
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geopolitico, guerra cognitiva. Si tratta, in parole povere, di quelle strategie che usano il dissenso
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interno di un paese come un'arma per fare pressione dall'esterno, magari con l'obiettivo
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di arrivare a un cambio di governo. Per capire fino in fondo la reazione delle
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autorità russe, c'è un altro pezzo del puzzle da mettere a posto. Dobbiamo guardare agli
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autori delle canzoni che Diana Loghinova e il suo gruppo suonavano. E i nomi non sono
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per niente casuali, eh? Noise MC, Pussy Riot, Mone Toshka. Non parliamo di artisti genericamente
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critici verso il governo. Parliamo di persone che Mosca ha messo in una lista nera, etichettandole
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ufficialmente come agenti stranieri, un'etichetta che ha conseguenze legali pesantissime.
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Guardiamo un po' più da vicino. L'analisi di Berti ci spiega che l'etichetta di agente
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straniero non arriva solo per le opinioni. Per Mone Toshka, per esempio, scatta perché
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il suo album è distribuito da una controllata di Sony Music. A Noise MC viene contestato di
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non aver messo l'avviso obbligatorio nelle sue comunicazioni. Le Pussy Riot, invece, vengono
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descritte come un fenomeno che ormai è più seguito in Europa che in Russia stessa.
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Ma cos'è questa legge in pratica? Beh, è abbastanza semplice. Se un artista in Russia
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riceve soldi da certe entità straniere, considerate da Mosca come parte di un apparato di propaganda,
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è obbligato per legge a mettere una specie di bollino, un avviso, su tutti i suoi canali
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social. Un obbligo che, secondo le autorità, questi artisti non avrebbero rispettato. E tutto
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questo ci porta alle riflessioni finali dell'articolo, che allargano il campo dal singolo
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caso a un fenomeno globale. Questa è la tesi finale, e francamente è piuttosto inquietante.
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L'analisi di Berti delinea uno schema. Si prendono giovani talenti, gli si dà visibilità
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e fama, gli si trasforma in simboli e poi, di fatto, gli si schiera come soldati in una
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guerra dell'informazione che è enormemente più grande di loro. E le conseguenze di tutto
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ciò? Beh, l'analisi le riassume bene. Da un lato, si è creata una spaccatura nell'opinione
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pubblica russa, divisa tra chi li difendeva e chi li accusava. Dall'altro, un'ondata di
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sdegno internazionale, che, secondo l'autore, si è trasformata nell'ennesima campagna antirussa,
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gettando altra benzina sul fuoco della polarizzazione.
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E chiudiamo con la domanda, decisamente provocatoria, che Federico Berti lascia in sospeso alla fine
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del suo articolo. Quando le stesse agenzie di stampa, che da un lato spingono una propaganda
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di guerra, dall'altro esaltano un certo tipo di pacifismo molto mirato. Stanno davvero
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lavorando per la pace? O è solo un'altra forma di violenza, mascherata da buone intenzioni?
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È una domanda su cui, credo, vale davvero la pena riflettere.
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