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Una chiacchierata con Corrado Rustici (Parte 2)
Rockol
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1 anno fa
La seconda parte della videoconversazione tra Corrado Rustici e Franco Zanetti
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Musica
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Nella tua ricca e lunga esperienza, i risultati più interessanti sono arrivati quando eri
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in contrasto con l'artista o quando eri in sintonia con l'artista?
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Sì, perché è sempre un contrasto, nel senso io non sono un produttore. Allora, vengo anche da una
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scuola tipo quella di Narada, che viene dalla scuola di Quincy Jones, dove si fa così e questo
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è quello che si fa e perché si fa così. Io sono sempre stato più vicino al personaggio di George
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Martin come produzione, cioè di un musicista che può aprire degli orizzonti a un artista e che abbia
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la capacità di risolvere musicalmente i nodi che vengono pettinè, quando si creano delle
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composizioni, quando si fa una produzione. In questo c'è, da parte mia è sempre stato un rispetto per
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le persone con cui ho lavorato, però c'è anche una verità che ho sempre voluto rispettare, nel
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senso quando io sapevo dentro di me che era la cosa giusta da fare, mi sono anche imposto e ci
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sono sempre stati degli scazzi, anche in particolar modo con Zuccaro all'inizio, perché come dicevo
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prima non era il sound che volevano, che avevano in mente, non ci credevano. Poi non so perché lui
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ha cambiato idea e ha cominciato a darmi, credo che rispetto abbia e abbia cambiato l'idea, perché
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fino al rispetto insomma è stata una battaglia continua, ma anche durante Blues e Oricenza e
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Birra su brani che poi sono andati alla storia come Rubin Meek dove lui non condivideva per
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niente la direzione, l'arrangiamento fra l'elettronica e il soul, sai, non riusciva a
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vederlo, ma perché non è un produttore. Il mio lavoro era quello lì, di dargli, guarda che c'è
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un orizzonte un po' più avanti, secondo me ci stai bene lì. Ovviamente non tutte le idee, tutte
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le soluzioni hanno la stessa importanza, per cui alcune battaglie le ho lasciate andare, perché
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poi si vince la guerra. Invece su alcune cose mi sono posto e con gli artisti ogni artista è
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diverso. Quello che ho notato è che all'inizio, ovviamente, chi specialmente è sconosciuto e non
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ha nulla da perdere accetta più volentieri una direzione. Nel momento in cui arriva al successo,
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e questa, sai, la grande illusione di io sono perché ho fatto, l'artista sono io, tutti ti
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dicono quanto sei bravo così, comincia a esserci un ego che viene fuori e si manifesta in modo
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diverso dall'artista e dall'artista, però alla fine è sempre quello là, cioè faccio tutto io,
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so fare io perché ho capito io. Ed è quella la cosa che per esempio i Beatles con George Martin
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hanno sempre salvaguardato fino a un certo punto, nel senso che sapevano qual era l'input di George
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Martin. Lo è stato anche con Zucker, abbiamo fatto 8 o 9 album insieme, fino a che poi c'è
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la stanca e ci sta, cioè dopo 11 anni, 12 anni, il lavoro insieme ci sta, che ognuno va per la
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sua strada. Mentre con gli altri è durato più, è stato più corto il periodo, più breve, perché
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rispecchia anche secondo me quello che succede, è successo sempre di più, nel senso che all'inizio,
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tipo 35-40 anni fa, c'era una strategia da parte dell'industria di dare tre album a un artista per
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verificare il suo percorso, poi alla fine non ci sei, non ci sei, mentre è diventato sempre più
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corto, è sempre risultato adesso, quindi per avere dei risultati immediati, ovviamente non puoi, poi
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nel contesto come oggi, dove nei primi 15 secondi è quello, il brano, non c'è, non c'è modo di fare
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né un lavoro artistico, né dare la possibilità a un artista di svilupparsi se ci fosse, perché
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non ce n'è bisogno, cioè per assurdo è un paradosso che dà più fastidio a un'industria avere
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uno che vende 3 milioni di dischi per dirti, io ho di 4.000 faccine e 70.000 miliardi di likes,
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visualizzazioni che hanno, vabbè tu lo saprai meglio di me, il significato che hanno, il
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corrispettivo economico anche tra l'altro, che è più vantaggioso avere invece 3 milioni di
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pseudo artisti che vendono uno stream o una copia al giorno che è uno che ne vende 3, perché sono
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tutti rimpiazzabili, non c'è bisogno di nessuno che abbia una voce unica, perché non ce n'è bisogno,
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perché ormai la musica, per quello che riguarda la musica popolare, è vista solo come parte di un
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intrattenimento per farci stare bene, sottolineare delle emozioni, per fare i reel, per, sai, i memi
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che si vedono sui social, non c'è un discorso di... magari nei live c'è ancora questa dove vai lì
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e partecipi insieme a altre persone e anche con il tuo artista, anche se anche lì sta diventando un
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macello perché sono tutti coi telefonini e farsi i selfie per far vedere che sono al concerto,
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piuttosto che godersi il concerto, no? C'è veramente dei livelli che è tutto un narcisismo
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al massimo, ormai è così. Quindi ritorno alla domanda che mi hai fatto, il contrasto è sempre
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importante perché se no fai tutto da solo ed è il risultato di quello che abbiamo in molti esempi.
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Da un contrasto salutare vengono fuori delle idee che sono la somma, più della somma, delle persone
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coinvolte. C'è qualcuno, se puoi fare il nome oppure anche semplicemente raccontandolo senza
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far nomi, che dopo aver lavorato con te non ha più lavorato con te e poi è tornato cospargendosi
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il capo di cenere dicendo scusa torniamo a lavorare insieme? Mi fai delle domande, fratello!
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Il mio compito è fare domande, il tuo è inventarti... non occorre che tu mi dica il nome, basta che tu
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mi racconti. Sì, ma sono stato il primo a dire guarda non c'è bisogno perché non credo che...
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tutte le cose che sono successe, se io ci guardo, ci rifletto, sono successe perché in quel momento
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lì le persone coinvolte avevano una predisposizione e una volontà di gettarsi nel vuoto, che una volta
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che hai qualcosa da proteggere è molto difficile da riconquistare. Parlo di uno spazio emotivo,
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uno spazio che dà anche la possibilità di creare il materiale prima di tutto, che è la cosa più
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importante, le canzoni, no? Nel momento in cui c'è un successo, nonostante la persona coinvolta
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continui a dire sì perché ma non è più la stessa cosa, non c'è quell'immediato... quell'immediata
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paura di gettarsi nel vuoto che si ha all'inizio, no? Che però è quella che è la forza, è quella
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che ti rende unico, che ti dice ah beh lo faccio perché ho voglia di fare... Dopo c'è sempre un
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qualcosa, sì voglio gettarmi nel vuoto però hai messo la rete sotto perché sì mi piacerebbe ritornare,
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facciamo come abbiamo fatto ed è quella che è la cosa che cambia. Per cui in alcune volte sono
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stato io a dire no, perché non serve. Meglio di no. Meglio di no, non serve perché non serve,
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facciamo solo delle cose per vendere, che non è stata mai la mia intenzione tra l'altro. Io non
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riesco a tradire quella che è stata la mia, nonostante sia stato molto fortunato, ma non ho
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mai fatto musica per guadagnare soldi o per vendere, ho sempre fatto il meglio che potevo
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in quel momento a servizi della musica perché non la tradirò mai. Senti a questo proposito ovviamente
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nel tuo palmarès ci sono dischi che hanno avuto grandi risultati sia di vendite, quando ancora si
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vendevano i dischi, sia di apprezzamento critico, ma c'è un disco che secondo te, fra quelli che hai
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prodotto, non è stato compreso, avrebbe meritato di più, peccato che non sia stato capito? Eh sì,
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ce ne sono diversi, perché poi alla fine io ho sempre fatto il meglio, non è che ho fatto,
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come dicevo prima, un disco, questo lo faccio, una marchetta, sai, non l'ho mai fatto quella roba
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là, per cui sì, delle volte... per esempio c'era un gruppo pugliese che portai all'assugero subito
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dopo il primo album di Negra Maro che si chiamavano Yameba 4, dove all'inizio c'era Erma Almeta,
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che era il chitarrista, aveva 19 anni, non so quanti, e Fabio Properzi era il leader, che aveva
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secondo me delle idee molto molto interessanti, un po' troppo vicino ai Radiohead forse, però era
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quello che voleva e si parte dalla parte, insomma, per poi sviluppare... quello secondo me fu un
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album, come anche quello di Renga che produssi, forse, sai, cercare di portare delle persone da
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un contesto all'altro, perché nella mia visione è quello che dovrebbero fare artisticamente,
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delle volte non ha funzionato, perché non è che non abbia funzionato, non è stato ricevuto,
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perché il pubblico, magari che avevano prima o che non avevano, non erano pronti ad accettare un
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cambiamento così repentino. Ho avuto invece una grande soddisfazione con Ligabue quando abbiamo
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fatto arrivare Cimosto, perché quella è stata un'operazione molto difficile, perché lui aveva
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già un pubblico molto esteso, una carriera importante, e il rinnovarsi all'interno di una
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carriera, devo dire, gli devo dare molto... gli do credito, perché è stato molto bravo a lasciarmi
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fare, ovviamente mettendo tutti i suoi commenti e cose, però ha voluto cambiare e l'ha cambiato,
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e siamo stati premiati, credo che sia uno dei due album più importanti della sua carriera, quello
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lì. Però, come ho fatto con lui, ho fatto anche con altri, per cui, sai, io sono tutti figli miei,
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alla fine. C'è invece qualcuno con cui avresti voluto lavorare e non ti sei mai riuscito,
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non ti è mai capitato? Sì, ce ne sono due, veramente, sono tutte e due donne. Una è Kate Bush,
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l'altra è Joni Mitchell. Hai scelto basso! Eh, va beh, per me è sempre stato così. Per me Joni
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Mitchell è stata... è fra una delle cinque, forse, autori più importanti della storia della
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musica popolare, moderna. Per me ci sono andato vicino nel senso che conoscevo le persone,
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ma anche lì, vedi, le cose succedono come devono succedere. Con Kate Bush... ho lavorato con una
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pseudo-Kate Bush all'inizio, che era Tori Amos, quando aveva 17 anni, e facemmo il primo provino
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quando lei venne a San Francisco. Però poi, va beh, non successe nulla, però almeno, sai,
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ci sono arrivato vicino anche là. Sì, quelle due artiste lì sarebbe stato veramente un grande
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onore per me, un piacere, imparare da loro a fare della musica vera.
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