«Un ballo in maschera» di Verdi è un’opera di eccessi e l’allestimento firmato da Massino Pizzi Gasparon Contarini, in scena al Teatro di San Carlo dal 4 ottobre, con i suoi costumi d’epoca, le scenografie pittoriche e luci con tagli laterali obliqui, ha soddisfatto il pubblico più tradizionalista, mentre la grande qualità del cast ha fatto il resto convincendo anche gli spettatori modernisti. Gasparon ha compiuto un sapiente lavoro filologico a partire dall’allestimento di Pierluigi Samaritani per il Regio di Parma. «L’opera sebbene si sarebbe dovuta incentrare sul solo sentimento amoroso, tralasciando i temi politico-sociali – annota il regista - in realtà sviscera un odio di classe che appare ancora attuale ai nostri giorni, trattando in modo violento la discriminazione razziale». In origine il melodramma aveva per titolo «Gustavo III» e si fingeva nella Svezia del 1792, prima che più di un intervento di censura ne spostassero epoca e luogo della finzione in una improbabile Boston di fine ‘600. «Un ballo in maschera» è un’opera di eccessi e di equivoci, di gelosie e sentimenti repressi, ma le maschere soni del “ballo” della società borghese in ascesa, sono i paraventi sovrastrutturali che la celano e si frappongono ai conflitti di classe che, per altro, il libretto di Antonio Somma pone in risalto fin dall’inizio, così come il razzismo verso Ulrica (“immondo sangue dei negri”) e percepito dallo stesso Renato, uomo di potere anch’egli, ma vittima della condizione di creolo. «È un’opera sovversiva – spiega Gasparon- nel senso che critica l’uomo di governo ed è -aggiunge il regista – come se Verdi volesse dirci che quando uno è eccessivamente popolare, perde il senso della ragione e crede di essere infallibile». Nel bene e nel male, la conduzione di Pinchas Steinberg non ha sorpreso: corretta e rigida tenuta del tempo, fraseologia essenziale e poca propensione a far danzare le melodie e, quando “ballo” è nel titolo… Anna Netrebko era al debutto nel ruolo, ma, a parte una sola veniale assunzione di fiato “di sicurezza” a scapito della linea, la prestazione è stata superba, intensa e coinvolgente. Applausi ad ogni occasione consentita. Ludovic Tézier è stato… Tézier: gigante dell’arte scenica, voce sonora e brunita, recitazione appassionata e dizione italianissima, fin troppo, incluso il vezzo nostrano di prolungare e sonorizzare le consonanti vibranti finali tronche. Il baritono transalpino ha magistralmente mutato atteggiamento vocale da immagine sonora di fraterno e devoto amico, a vendicatore del presunto onore tradito. Piero Pretti è parso avere in mente la sua fortunata interpretazione in «Don Carlo» e anche qui, in Riccardo, ha tratteggiato assai bene l’uomo di potere generoso, ma afflitto da incertezze. La voce ha viaggiato bene nel medio-acuto e la recitazione ha convinto. Elizabeth DeShong in Ulrica ha dato voce mezzosopranile chiara ad un personaggio satanico, e ci può stare. Talvolta al Paggio vene attribuita una pur se inconscia omo affettività che lo lega al conte; Cassandre Berthon ha invece impersonato una figura narrativa gradevolmente straniata. Maurizio Bove, Romano Dal Zov, Adriano Gramigni e Massimo Sirigu hanno ben completato il cast. Più che positiva la prova del Coro diretto da un verdiano nel DNA come il maestro Fabrizio Cassi; le coreografie sono di Gino Potente. Per tornare sul libretto di Somma, le trasposizioni del luogo di finzione dalla Svezia agli Stati Uniti e il declassamento da sovrano a governatore ha metastoricizzato la tragedia. La collocazione negli States produce oggi un’involontaria, ma significativa, coincidenza che riespone il conflitto di classe, che si qualifica, modernamente, come legittima aspirazione di giustizia sociale e razziale. Applausi convinti all’indirizzo di tutti, ovazioni per Netrebko, Tézier e Pretti e gradimento espresso per regia e direzione d’orchestra: note di concordia che al Ssn Carlo non possono che giovare. Prima della recita, una rappresentanza delle maestranze artistiche ha accolto il pubblico sventolando bandiere palestinesi. (Dario Ascoli)
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