È IL 10 FEBBRAIO 1986 quando a Palermo comincia uno dei processi penali con il più alto numero di imputati al mondo: 468, difesi da 200 avvocati, si riuniranno una speciale aula-bunker capace di resistere persino a temuti attacchi missilistici. Dopo 349 udienze, 1.314 interrogatori e 635 arringhe difensive, l’11 novembre 1987 l’ultima parola spetta agli otto giurati, quattro uomini e quattro donne (le uniche in un processo con soli protagonisti maschili), che chiusi in un appartamento nel carcere dell’Ucciardone, dovranno decretare condanne e assoluzioni. È qui che inizia La Camera di Consiglio, il nuovo film di Fiorella Infascelli (al cinema dal 20 novembre) che ripercorre quei 36 giorni che porteranno a una storica condanna collettiva a Cosa Nostra e al riconoscimento dell’esistenza dell’organizzazione mafiosa come struttura unitaria. La regista sceglie un punto di vista intimo, umano: non parla (solo) di mafia, ma racconta piuttosto cosa succede a otto persone in una situazione di una clausura atipica, «estrema come luogo, come mole di lavoro, per i vincoli a cui sono sottoposti, per l’orrore dei reati». I personaggi, un cast corale in cui spiccano Sergio Rubini e Massimo Popolizio, che interpretano rispettivamente il presidente della giuria e il giudice a latere, si trovano infatti in uno stato di detenzione molto simile a quello degli imputati e hanno accesso solo a un piccolo spazio esterno, un cortiletto dove possono uscire ogni tanto per tornare a sentire i rumori esterni. Infascelli non usa nessun materiale di repertorio (a parte le immagini che scorrono nei titoli di testa del film), firmando così un’opera d’impianto teatrale incentrato sulle storie personali che costruiscono una riflessione universale sulla giustizia e sulla pena. E lasciando allo spettatore il compito di rispondere alla domanda più difficile per chiunque si trovi a decidere del futuro di un altro essere umano: dove si trova il confine tra verità e ragionevole dubbio?
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