Nevica. Scende copiosa, nel suo vorticante brioso turbinio, la candida neve.
Con il viso incollato dietro il vetro della finestra, guardo i fiocchi cadere a precipizio, in una folle danza, un valzer fiabesco che mi porta a guardare il cielo col naso all’insù. In questa posizione mi sembra di essere intrappolata in una di quelle palle di vetro dell’infanzia: bastava scrollarle un po’, per vedere la neve cadere con quel suo caratteristico brillio azzurro, che mi lasciava con la bocca aperta in un’esclamazione di meraviglia.
C’è un altro ricordo che mi lega all’infanzia ed è la neve nel bicchiere. Ricordo che…
“la neve al mio paese era un evento eccezionale, ed ogni volta che il cielo si scrollava il suo grigio manto polveroso e grossi fiocchi di polvere volteggiavano allegri, per poi posarsi leggeri sulle lastre di pietra bianca del vecchio quartiere, un’euforia fanciullesca contagiava tutti.
Da ogni balcone, terrazza, finestra non si vedevano altro che mani rosse e violacee raccogliere la neve, quella sopra, non contaminata dal contatto ferroso della balconata, o del parapetto di una finestra, per poi riempire bicchieri, tazze e scodelle.
Rientrati in casa, quel bianco e gelido tesoro, tra le mani paonazze, diventava una leccornia da consumare in fretta magari con una goccia di caffè o del miele.
La neve nel bicchiere era una parentesi poetica e un gesto d’amore in un’infanzia nuda, priva d’ogni orpello affettivo.
Sia pure nella sua algida consistenza diventava un dono, una calda carezza da riscuotere subito, prima che la sua vita effimera si dileguasse in una rorida goccia.
Presa in quel giro insolito di puro divertimento e rilassatezza, mi sollazzavo e benedicevo quel raro evento atmosferico che smuoveva anche il più austero dei padri e rendeva gioiosa la più evanescente delle madri.
Quando tutte le tazze erano svuotate e i visi tornati seriosi e l’atmosfera tornava ad essere pacata, provvedevo personalmente alla mia ”neve nel bicchiere”.
La magia del momento mi faceva superare la paura di salire in cima ad una scala fatiscente e, per usare un eufemismo, antica al punto da sospirare ad ogni gradino superato con successo, il che mi permetteva di avvicinarmi, con anelante gioia, alla vetta ambita. Arrivata in cima, con un balzo ed un’estrema prova di coraggio, mi ritrovavo nel luogo mio preferito: la terrazza.
Qui, felicemente sola, mangiavo la neve direttamente dal parapetto di pietra e calce, affondando le labbra, tese dal gelido contatto, in quell’enorme orgia di freddo cotone.”.
Finito lo scorrere del ricordo, ritorno con i piedi per terra e col naso in giù, il mio sguardo cade nel bigio livore di una pozzanghera, è cominciato a piovere, le gocce saltellano come impazzite, riempiendo le impronte di scarpe lasciate dai passanti sul marciapiedi. La pioggia ha spezzato l’incanto ma il mio ricordo di bimba rimane, autentico, vero, con tutto il suo profumo di neve e caffè, e con la gelida realtà tra le mani di un bicchiere con dentro la neve.